L'Europa non ha mai protetto il popolo Rom
L’Europa non ha mai protetto il popolo Rom. Da otto secoli Rom e
Sinti sono colpiti da discriminazione, violenza, persecuzione etnica.
Tutta la cultura e la tradizione del nostro continente sono permeate di
antiziganismo e il milione di morti Rom durante il Porrajmos non ha mai
trovato giustizia postuma. Come gli ebrei negli anni dei pogrom e della
Shoah, così i Rom sono il capro espiatorio di un continente che ha
costruito le propria fondamenta civili su guerre, massacri, ruberie. Il
popolo Rom rappresenta l’unica speranza di riscatto del Vecchio
Continente in seguito a una Storia infame. E’ ora che l’Unione europea
processi se stessa e si riscatti, partendo dal rispetto per questa gente
pacifica, libera e portatrice di una cultura millenaria improntata
all’amore per tutti gli esseri umani e l’ambiente che ci accoglie.
Lo chiamano il campo dei «Mangiatori di topi», un posto che se non lo
vedi con i tuoi occhi non ci credi che esiste. L’accampamento rom
abusivo di Lungo Stura Lazio è una grande bidonville dimenticata. Una
sponda malsana, tra le baracche e le roulotte scassate, dove la Torino
che “non sta mai ferma”, quella dei cantieri e del progresso
urbanistico, non è mai arrivata. Siamo in zona Barca, estrema periferia
nord-est a due passi da Settimo e ultimo girone infernale della città.
Qui secondo alcune stime vivono tra le mille e le duemila persone, e
almeno duecento sarebbero i bambini. La certezza nelle cifre non c’è. I
numeri sono un’opinione per chi convive tra gli arbusti con ratti e
immondizia, anche di origine sospetta. Eccolo il quarto mondo a due
passi da noi, il drammatico microcosmo umano ignorato dalla politica, la
bomba ecologica che nessuno sa come disinnescare.
Dagli orti abusivi agli affari sporchi
Gli abitanti del campo sono per lo più rom romeni, rom italiani
e cittadini romeni. I primi occupanti sono arrivati negli anni ’90,
quando sulla sponda destra della Stura c’era soltanto una distesa di
orti abusivi, coltivati con accanimento dai pensionati della zona. Era
un piccolo gruppo di romeni, fuggiti dal loro paese dopo la fine della
dittatura di Ceausescu. Gente di poche pretese dicono le malelingue,
abituata a vivere nelle fogne di Bucarest. Ecco perché dalla sponda
opposta del fiume altri nomadi meno disperati di origine slava hanno
cominciato a chiamarli con disprezzo «Mangiatori di topi». Col passare
degli anni la comunità è cresciuta fino ad arrivare a contare più
abitanti di molti paesi del Piemonte. Oggi in Lungo Stura Lazio c’è una
piccola città di disperati, con i numeri civici segnati sulle baracche
con spray rosso e persino con piccoli pseudo-rioni. Sembra assurdo ma
anche nel girone infernale degli ultimi c’è chi è meno disgraziato degli
altri: chi vive verso il ponte di strada Settimo, dietro il monumento
ai partigiani, sta meglio di quelli costretti a contendere lo spazio
vitale ai topi in un pezzo di terra sotto il livello del fiume che qui
chiamano «la buca». In quello che un giudice del tribunale di Torino ha
definito «uno dei luoghi peggiori mai visti», una capanna costa 250
euro, ma c’è chi possiede due proprietà e ne affitta una per 10 euro a
settimana. Chi non paga viene sfrattato, ma senza le lungaggini della
burocrazia italiana: bastano un paio di rom con l’aria truce a
costringere il malcapitato a cambiare aria. Solitamente questo metodo
funziona, soprattutto dopo che nel 2008 un uomo di nazionalità romena è
stato ucciso a colpi di motosega da due connazionali dopo una disputa
sul possesso di una “abitazione” affacciata sul fiume. Ma a differenza
di quanto si sarebbe portati a credere, in questo dedalo di dormitori
fatiscenti si trova una grande varietà umana. C’è la brava gente che
riesce a sopravvivere con lavori umili ma onesti, e c’è chi delinque.
Tutti sono costretti a rispettare la legge non scritta di un gruppo
impenetrabile, governato da pochi capi famiglia. La miseria di Lungo
Stura Lazio è un terreno fertile per la criminalità e le baracche sono
il punto di partenza per molte attività illegali.
Già alle otto del mattino lo stradone che costeggia la favela
torinese inizia a brulicare di rom. È come un condominio i cui abitanti
si alzano e vanno al lavoro. E sulle sponde della Stura gli impieghi
sono molteplici: ci sono gli invalidi, succubi del racket delle
elemosine, che partono lentamente per raggiungere gli incroci sparsi nei
diversi quartieri, le borseggiatrici con le gonne lunghe pronte a
prendere d’assalto i mezzi pubblici, i ragazzi esperti nel rubare i
motorini e quelli abili nel maneggiare il piede di porco per svaligiare
gli appartamenti. Infine ci sono i “predoni di oro rosso”, rom
specializzati nel procurarsi rame e metalli pregiati, che si mettono in
cammino con in spalla gli zainetti e in tasca le tronchesine.
Mentre i “lavoratori” sono in giro, i bambini rimasti nella baraccopoli
giocano tra i sacchetti dell’immondizia colorati. Poco distante gli
uomini giocano a biliardo in un bar improvvisato dove si stringono
legami familiari e si concludono affari davanti a un bicchiere di birra.
Il ritorno di massa al campo avviene solo quando cala la notte e si
fanno i conti con i capi. Chi ha lavorato male portando poche monetine o
una refurtiva scadente, viene punito. Poche scuse, è la legge di Lungo
Stura, dove si vive ai margini del codice penale e chi si ribella può
addirittura perdere la vita. È accaduto a Vasile Doicescu, muratore
quarantenne senza precedenti penali, morto bruciato vivo nel giorno di
Pasqua del 2008 per aver disobbedito alle supreme regole della
bidonville.
L’apparente ordine imposto dai capi bastone non vale però al di fuori
del campo. Più volte negli ultimi anni la polizia ha dovuto intervenire
per sedare delle risse tra i romeni di Lungo Stura e gli slavi del
vicino accampamento autorizzato dal comune. Litigano a volte per motivi
passionali e più frequentemente per affari. Provocazioni, minacce
reciproche di vendetta che finiscono a bastonate e addirittura con
qualche sparo. Poi torna la calma apparente: qualcuno si impone, qualcun
altro si sottomette e i feriti di una parte e dell’altra, una volta
portati in ospedale, si rifiutano quasi sempre di sporgere denuncia. È
chiaro che la legge italiana non è bene accetta all’interno del campo.
La zona è off limits e la polizia lo sa. Le iniziative di agenti
solitari sono assolutamente sconsigliate dopo che nel 2007 una pattuglia
ha rischiato il linciaggio per aver inseguito un’auto fin dentro le
stradine fangose della bidonville.
I blitz organizzati invece si fanno, e in qualche caso hanno portato a
scoprire merce rubata pronta ad essere spedita in Romania: vestiti,
materiale edile ed elettrico, qualche scooter.
Roghi, epidemie e rifiuti misteriosi
La notte nel campo rom ha il sottofondo delle urla tra ubriachi
e delle musiche dell’est. Si litiga e si fa festa a pochi passi gli uni
dagli altri, mentre i residenti del quartiere Barca si lamentano per
gli schiamazzi e per il fumo nero e l’odore acre di gomma bruciata che
sale dal campo col calare del buio. I “predoni di oro rosso” fondono il
rame trovato in città separandolo dalle guaine di gomma che ricoprono i
cavi, provocando in questo modo fumi tossici che a seconda del vento
possono arrivare anche fino alla Falchera e alla Barriera di Milano.
L’ignoranza e le quotazioni di questo metallo fondamentale per
l’edilizia sul mercato nero (fino a 10 euro al chilo) fanno passare in
secondo piano gli effetti nocivi sulla salute e trasformano la Barca in
una piccola Terra dei Fuochi, nata in silenzio e cresciuta
nell’indifferenza dell’operoso e civile Nord Italia.
Il campo intanto continua a crescere nonostante i piccoli gruppi di
fuoriusciti che, stanchi di vivere in mezzo ai topi e alla violenza,
vanno a occupare terreni altrove. Per chi invece rimane in Lungo Stura
Lazio, l’emergenza non conosce stagioni. D’inverno il rischio maggiore
sono gli incendi, che possono divampare all’interno delle stamberghe a
causa delle stufe accese, e le alluvioni, che fanno alzare
improvvisamente il livello del fiume arrivando a lambire le baracche più
vicine alla riva. Ad ogni ondata di piena la Protezione Civile sgombera
in fretta la zona ma appena il torrente torna negli argini la vita nel
campo ritorna come prima, aspettando la bella stagione che porta però
inevitabilmente altri problemi. I bambini fanno i tuffi nel fiume
inquinato per trovare sollievo al caldo di luglio che trasforma
l’immensa quantità di spazzatura presente nella favela in una bomba
ecologica, un focolaio di epidemie.
Sono proprio i rifiuti, l’ammasso informe che circonda e sommerge le
catapecchie, che viene spostato di volta in volta per cercare altro
spazio in cui accamparsi, il problema principale del campo. Con l’aiuto
dei volontari in passato sono state organizzate operazioni di pulizia
che hanno permesso di portare via centinaia di tonnellate di spazzatura.
Poi i soldi del Comune sono finiti e l’immondizia è tornata nel campo
come e più di prima. Dune che camminano, compongono e scompongono
cataste di schifo in cui si trova di tutto: sacchetti di plastica,
vecchi elettrodomestici, mobili, materassi, pneumatici di camion, ferri
arrugginiti e persino amianto. Ma c’è di più, il sospetto che i rifiuti
comuni nascondano scarti nocivi è forte. Lo ha detto chiaro e tondo già
nel 2010 a La Stampa Michele Curto, ex presidente della Terra del Fuoco,
associazione impegnata nella mediazione sociale negli insediamenti
abusivi: «Nessuno sa che cosa si nasconde nei cumuli di rifiuti, di
certo non tutto arriva da dentro il campo». Le sponde del fiume
sarebbero diventate «lo sversatoio di Torino, anche per i rifiuti
industriali e chimici». Una questione che potrebbe anche assumere
risvolti allarmanti se venisse provata l’esistenza di un’ecomafia locale
formata da piccole e medie imprese che stringono patti con i capi per
poter scaricare impunemente tra gli arbusti e le baracche di Lungo Stura
i loro rifiuti pericolosi. Sono passati altri due anni, ci sono state
le elezioni e l’entrata in carica di un nuovo consiglio comunale, ma in
Lungo Stura Lazio non sembra essere cambiato nulla. Eppure ad ogni
tornata elettorale si fanno proposte per risolvere il problema dei rom.
La demagogia la fa da padrone, poi appena chiuse le urne si scopre che i
soldi per le bonifiche non ci sono e la politica viene inevitabilmente
colpita da una imbarazzante paralisi. «Bisognerebbe sgomberarli», dicono
i residenti della Barca, ormai esasperati. Solo che la maggior parte
degli occupanti dell’accampamento sono cittadini comunitari che non si
può rimandare a casa. Dunque l’atteggiamento dell’amministrazione
comunale in merito alla questione dei duemila rom pare almeno per ora
orientato a non svegliare il can che dorme. Almeno fino alla prossima
piena, fino al prossimo focolaio di Tbc, fino al prossimo episodio di
violenza.
Massimiliano Ferraro
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