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domenica 21 febbraio 2016

Umberto Eco



Alessandria, in Piemonte, può essere una città dai grandi spazi. Soprattutto quando si è bambini i luoghi possono sembrare smisurati: le case più grandi di quello che sono, le piazze diventano luoghi in cui perdersi, i viali paiono strade che non finiscono mai. Ad Alessandria esisteva ed esiste ancora una piazza, intitolata a Giuseppe Garibaldi, tutta a portici, con un grande spazio che, soprattutto con la nebbia di un tempo, la faceva sembrare sconfinata, senza bordi e senza confini.

Siamo negli anni della seconda guerra mondiale, un bambino corre con una bicicletta. Ha poco più di dieci anni, e si dirige verso l’edicola della stazione ferroviaria dove qualche giorno prima aveva visto un fascicolo Sonzogno, con una storia tradotta dal francese: 
«costava una lira, e io avevo una lira in tasca».

Molti anni dopo, quel bambino, diventato uno dei più grandi scrittori di questi tempi, dirà che quel fascicolo «era la sola promessa di narratività e di fantasia». Lo dirà in un piccolo racconto uscito su una pubblicazione a carattere locale, dedicata alla sua città natale, Alessandria, appunto. Era il 1981, Il nome della rosa, uscito solo da un anno, lo aveva trasformato in uno degli autori più famosi del mondo. E la vita di Umberto Eco stava cambiando. A 48 anni entrava nel mondo letterario, dove la parola mondo non è un modo di dire, è esattamente quello che significa: milioni e milioni di copie, traduzioni in tutte le lingue, conferenze ovunque, esigenza di proteggersi dalle troppe richieste di articoli, interviste, convegni e saggi.

Da allora sono passati 35 anni e sono usciti molti suoi romanzi, fino a questo ultimo, che pubblica Bompiani, e che per certi versi è differente dagli altri: si intitola Numero zero. Un romanzo sulle paranoie interpretative, sulle angosce della contemporaneità, sull’uso e abuso delle notizie. Ma, contrariamente ai suoi romanzi precedenti, è più breve, poco più di 200 pagine, ed essenziale. Pochissime citazioni, pochi rimandi dentro una Milano inedita e nascosta. E molta storia d’Italia dal 1945 a oggi: la caduta del fascismo, la strategia della tensione, Gladio, gli attentati ai treni, il golpe di Junio Valerio Borghese

Questa è solo una parte di trama del nuovo romanzo. Eco in questo libro usa un teleobiettivo anziché il grandangolo, che invece aveva utilizzato per scrivere Il Pendolo di Foucault, nel 1988, libro gemello, complementare a questo Numero zero. Un teleobiettivo che sceglie di mettere a fuoco una parte di quella storia: quella dell’ossessione per i complotti, dell’angoscia per quelle che lui ha sempre chiamato le derive interpretative.

Ma se torniamo a quel fascicolo Sonzogno, e al piccolo Umberto Eco sulla bicicletta, con una lira in tasca, lo facciamo perché lui funziona in un modo più imprevedibile di quanto si pensi. I suoi pensieri, da lucido intellettuale, si mescolano di continuo a epifanie, passaggi di senso, a vaghezze nitide come sa essere la nebbia quando avvolge ogni cosa. La nebbia delle pianure e delle campagne alessandrine, su cui ha scritto molte volte.

Se si legge con attenzione, tutta la scrittura narrativa di Umberto Eco, è su questo crinale: tra la limpida ragione del semiologo e l’inquietudine di un mondo che può apparire indecifrabile. Al punto tale, che il fascicolo Sonzogno, di cui Eco racconta per spiegare dove fosse l’origine della sua passione per la letteratura, la fantasia e il racconto, si completa con una storia di molto tempo dopo: «Tanti anni dopo ho avuto come una intermit­tenza del cuore, un corto circuito tra ricordi e immagine presente, atterrando con un aereo barcollante, al centro del Brasile, a San Jesus da Lapa. L’aereo non poteva prendere terra perché due cani sonnolenti stavano sdraiati in mezzo alla pista di cemento, e non si muovevano. Qual è il rap­porto i due eventi? Nessuno, le epifanie funzionano così».

E in questa stranezza, in questo suo modo di procedere a salti, come fosse la mossa del cavallo negli scacchi, che va raccontato Umberto Eco. Nato da Alessandria, il 5 gennaio del 1932, dalle parti di piazza Genova (ora piazza Matteotti), da una famiglia della piccola borghesia; una sorella più piccola di tre anni, molta normalità, formazione cattolica, liceo classico Plana, studi di filosofia a Torino, tesi sull’estetica di San Tommaso d’Aquino discussa con il grande Luigi Pareyson (controrelatore Augusto Guzzo), già brillante da giovanissimo, curioso, attento.

Entra in Rai dopo la laurea. Leggende raccontano che scrivesse le domande per i quiz di Mike Bongiorno, assieme a Gianni Vattimo, Furio Colombo, Andrea Barbato e altri. All’incirca era così. Ma la cosa, che non aveva certo tutta questa importanza nella sua biografia, rimase impressa perché qualche anno dopo pubblicò in Diario minimo quella Fenomenologia di Mike Bongiorno che, con L’elogio di Franti, sarebbe diventato uno dei suoi primi testi più famosi. Non ci volle molto per accorgersi del suo acume della sua ironia, e della sua cultura enciclopedica. Ma soprattutto della capacità di guardare le cose del mondo in modo originale.



È il primo che fa pubblicare Charles Schultz in Italia. Nessuno sapeva chi fosse Charlie Brown, e tantomeno quel signore sorridente che aveva inventato i Peanuts. Eco, scriverà la prefazione al suo esordio italiano raccontandolo con questo incipit: «Non beve, non fuma e non bestemmia».

Comincia a collaborare con Valentino Bompiani, che gli pubblica Opera aperta nel 1962. Ed è il suo vero battesimo intellettuale. Si arrabbiò un sacco di gente per quel libro così fuori dagli schemi, così moderno: «mi dicevano che non è così che si parla di arte. Mi ricordo che il critico Vittorio Saltini mi beccò su una frase in cui apprezzavo un verso di Cendrars dove si paragonavano le donne amate a dei semafori sotto la pioggia, e osservava pressappoco che io ero tipo da avere reazioni erotiche solo sui semafori, per cui nel dibattito io gli rispondevo che a una critica così si poteva obbiettare solo invitandolo a mandarmi sua sorella. Questo per dire il clima».

In quel 1962 mettere assieme la teoria dell’informazione con le poetiche di James Joyce, guardare a tutto quello che di culturalmente nuovo circolava nel mondo, appassionarsi agli esperimenti di Luciano Berio che componeva le sequenze per la moglie soprano Cathy Berberian, frequentare il centro di fonologia musicale della Rai dove passava spesso Pierre Boulez, erano tutte cose, che facevano di Eco un innovatore. Forse troppo per certi ambienti.

Leggenda dice che in cattedra è arrivato più tardi di quel che avrebbe meritato (nel 1971) perché nel mondo accademico torinese non fu visto bene quel suo Filosofi in libertà, pubblicato presso un piccolo editore di Cuneo nel 1958, e poi introvabile per molti anni (oggi lo si può leggere ne Il secondo diario minimo). Era una storia della filosofia in versi, anche con vignette disegnate da Eco: «San Tommaso l’Aquinate / le due Summe ha elaborate / con il fare suo giocondo / per ridurre tutto il mondo / a un sistema di risposte / calibrate e ben disposte…».

L’accademia le trovò goliardiche, ed erano invece un gioco lieve di uno che in quel periodo lavorava a saggi serissimi sull’estetica medievale o sulle poetiche dell’opera aperta. In questo rappresentava davvero un’eccezione: uno studioso di filosofia e medievista che però lavorava in Rai, un luogo a quei tempi decisamente all’avanguardia e futuristico, quella che oggi chiameremmo una startup. Un appassionato di San Tommaso che però leggeva Flash Gordon, i romanzi di 007 di Ian Fleming e analizzava le strutture narrative della letteratura d’appendice: da Liala a Carolina Invernizio.

Non aveva mai disdegnato di pubblicare articoli per i giornali (e non era così consueto, allora), mostrava una predisposizione per una cultura che era quanto di più lontano dal crocianesimo imperante si potesse immaginare ma anche dal marxismo-leninismo. Attivo nel gruppo ’63 ma sempre con spirito critico, non cedette alla tentazione della narrativa e del farsi scrittore. Fino a un certo momento.

Nel frattempo dirigeva la saggistica Bompiani, si sposava con Renate, una redattrice editoriale originaria di Francoforte (la battuta di Eco fu che subito dopo il matrimonio sarebbero partiti per il «giro di bozze»), e divideva i suoi libri tra scritti scientifici e scritti occasionali. Negli scritti occasionali, dal Diario Minimo a Il costume di casa, Dalla periferia dell’impero a Sette anni di desiderio, ci sono i saggi che lo renderanno famoso. Soprattutto uno, che pubblicò nel 1965, e intitolato: Pochi clamori tra la Bormida e il Tanaro.

La Bormida e il Tanaro sono i due fiumi che scorrono ad Alessandria. E i pochi clamori sono il racconto dell’educazione intellettuale e interiore di Umberto Eco. Dopo aver spiegato quanto gli alessandrini siano distaccati, lontani dalle retoriche e incapaci di far tesoro di mitologie e leggende (san Francesco ammansisce un lupo ad Alessandria prima ancora che a Gubbio, ma nessuno se ne ricorda, era solo un vecchio frate un po’ bizzarro), Eco conclude in questo modo: «Gli alessandrini non si sono mai entusiasmati per nessuna Virtù Eroica, nemmeno quando questa predicava di sterminare i Diversi. Alessandria non ha mai sentito il bisogno di imporre un Verbo sulla punta delle armi; non ci ha dato modelli linguistici da offrire agli speakers radiofonici, non ha creato miracoli d’arte per cui far sottoscrizioni, non ha mai avuto nulla da insegnare alle genti, nulla per cui debbano andar fieri i suoi figli, dei quali essa non si è mai preoccupata di andar fiera. Sapeste come ci si sente fieri nel riscoprirsi figli di una città senza retorica e senza miti, senza missioni e senza verità». È quella che chiama: la diffidenza per il noumeno degli alessandrini. Il noumeno, la cosa in sé kantiana, l’inconoscibile, per intendersi.

Ma la sua allergia alle ideologie, ai dogmi politici, all’adesione incondizionata, alla retorica politica, non poteva essere una buona merce per un mondo culturale che, tra gli anni Sessanta e Settanta, era tagliato in due con l’accetta: tra marxisti, in tutte le declinazioni possibili, e reazionari, di cultura moderata e cattolica. Il cattolicesimo giovanile di Umberto Eco si era perso in pochi anni. Quando nelle Edizioni di Filosofia venne pubblicata la sua tesi di laurea, nel 1954, Tommaso d’Aquino nel titolo era ancora “San Tommaso”. Nell’edizione Bompiani ripubblicata nel 1970, San Tommaso d’Aquino era diventato semplicemente “Tommaso d’Aquino”. In mezzo c’era un percorso personale e intellettuale. Una volta ha detto: «Se un giorno arriverò in Paradiso e potrò incontrare Dio ho due possibilità. Se è quello vendicativo dell’Antico Testamento, volto le spalle e me vado all’inferno. Se invece è quello del Nuovo Testamento, beh allora abbiamo letto gli stessi libri e parliamo la stessa lingua. Ci intenderemo».

Lucido, curioso e spiritoso, ma senza tessere politiche in tasca, aveva un’ammirazione per il conte Valentino Bompiani, che era un uomo colto, squisito e quanto di più lontano dagli opportunismi ideologici e politici dell’epoca. È una storia curiosa quella di Eco. Uomo di sinistra ma non appartenente a quella sinistra intellettuale che tutti conoscono bene: la diffidenza per il noumeno l’ha sempre tenuto lontano da un certo modo di essere impegnato e soprattutto organico. Gramsci non è mai stato per lui. Figurarsi Togliatti. La sua franchezza lo ha sempre reso, e lo rende, piuttosto indigesto a un mondo di professionisti della lusinga e dell’elogio facile. Specie di questi tempi.

I suoi articoli fanno sempre discutere. Oltretutto la semiotica è disciplina nuova e complessa che chiede conoscenze e studio, e nessuno osava avvicinarsi ai saperi di Eco senza temere lo strafalcione strutturalista, l’inciampo sull’abduzione, o sulle grammatiche generative trasformazionali. Insomma nel piccolo grande mondo culturale italiano, per quanto non appartenesse a nessuna cerchia, forse nemmeno la sua, Eco è sempre stato rispettato e considerato, anche se per certi versi era un po’ un marziano.

Ma c’era un’altra cosa ancora in quegli anni. L’insegnamento a tempo pieno, la cattedra da ordinario vinta a quasi 40 anni gli dà uno slancio forte. Contrariamente ai suoi colleghi noti quanto lui, Eco era sempre in cattedra, non delegava mai, seguiva personalmente le tesi, e con gli anni ha sempre mantenuto rapporti con i suoi allievi, rapporti concreti e semplici, mentre tutto il resto del mondo, quelli che non erano i suoi studenti, non riusciva neppure a parlargli due minuti al telefono. Era la sua differenza, la sua Bologna, nuova patria intellettuale, che avrebbe avuto un ruolo importante, al pari della natia Alessandria, di Milano e di Parigi.

Ed è in quegli anni che la sua vita cambia. Merito de Il nome della rosa. Merito di un romanzo. Un professore che scrive un romanzo. Niente di più ovvio oggi, in tempi in cui i romanzi li scrivono manager e giornalisti, professori e presentatori, attori e politici, scrittori sempre più raramente.

Ma allora non funzionava così. Siamo nella seconda metà degli anni Settanta, gli anni di piombo, per capirci. Quando il libro uscirà, nel 1980, molti giornalisti diranno che era un romanzo «scritto al computer», suggestionati dall’idea ormai diffusa, che Eco fosse una specie di stregone, di mago della modernità. In realtà lo scrisse per buona parte a mano, perché nessun computer allora aveva un programma di scrittura capace di gestire un testo di quel genere.

Prima di pubblicare il romanzo Eco lo spedisce a cinque o sei amici, con una domanda: «mi può danneggiare pubblicare un libro di narrativa? Un professore autorevole può darsi alla scrittura letteraria?». Domande lunari oggi, dove il narcisismo autoriale non permette di porsi domande del genere. Gli amici rispondono che un libro di 600 pagine, con molto latino, dispute medievali, niente sesso, e ragionamenti sulla Poetica di Aristotele, non poteva certo metterlo in cattiva luce. Perché non erano poesie giovanili alla maniera di Prévert. Così quando arrivò tra le mani di Valentino Bompiani decisero che se ne sarebbero vendute, forse (e sottolineo forse) al massimo 30 mila copie. E sarebbe stata già una gran bella soddisfazione.

Si sa poi come è andata. Furono milioni di copie, divenne il libro del decennio, tradotto in centinaia di lingue. Un caso negli Stati Uniti, un paese dove i lettori medi non avevano certo dimestichezza con Aristotele, per non dire di Fra’ Dolcino o l’inquisitore Bernardo Gui. Comincia il diluvio del successo. A meno di 50 anni Eco è ricco e celebre. Comincia a difendersi dagli assalti. Firma una nuova rubrica sull’Espresso, giornale a cui ha sempre collaborato: “La bustina di minerva”. Arrivano le lauree honoris causa, a decine. Ma il romanzo successivo, Il pendolo di Foucault, forse il più bello di tutti i suoi libri, esce solo dopo otto anni. È il suo tempo di scrittura, quando in quei tempi, e anche oggi, gli autori di best seller pubblicano un libro l’anno.

Dentro tutto questo c’è un uomo che nel non voler mai lasciar trapelare emozioni, autobiografia, sentimenti personali, ossessioni della sua vita, tipiche di moltissimi, se non la quasi totalità, scrittori del mondo, ha cercato di depistare i suoi lettori in tutti i modi. Sconvolto dalla violenza e dal sangue degli anni di piombo, di cui era stato testimone negli anni Settanta a Milano e Bologna, pubblica un romanzo medievale, dove un frate che assomiglia a Sherlock Holmes scopre una catena di omicidi innescata da un bibliotecario intollerante e dogmatico. Invece di raccontare quanto le ideologie possano uccidere con la P38 e la mitraglietta Skorpion si sposta di 650 anni indietro, e spiega il nostro paese con una storia medievale di veleni, biblioteche e labirinti.

Ossessionato dalle derive interpretative, dal rischio di una lettura complottista e paranoica della realtà, dal fatto che non sempre soltanto la notte della ragione genera mostri, ma anche alle volte certe albe, e di come anche la sua semiotica poteva diventare un’arma a doppio taglio, racconta il fascismo eterno, le teorie del complotto, nel Pendolo di Foucault. Romanzo capolavoro. Tornerà a questi temi ne Il cimitero di Praga, e in questo ultimo Numero zero, svelando chiaramente quale siano i suoi argomenti preferiti, quelli su cui un giorno gli studiosi dovranno insistere di più.

Come torna al medioevo, dopo Il nome della rosa, con Baudolino. Per poi raccontare lo struggimento del tempo e del passato ne L’isola del giorno prima, e interrogarsi sul senso della memoria e della tradizione nel catalogo dei ricordi de La misteriosa fiamma della principessa Loana.

Sono temi, apparenti applicazioni della sua intelligenza a sviluppi narrativi. Il teorico della narratività (proprio su questi argomenti tenne le sue lezioni americane ad Harvard, le Norton Lectures), applicava il suo genio teorico in romanzi lontani da lui, metteva in pratica la sua anima semiotica, il suo sarcasmo, la sua sconfinata erudizione e la traduceva in forma narrativa. I suoi romanzi diventavano così un arsenale di possibilità per studiosi che avevano la voglia e il tempo di trovare riferimenti, citazioni, omaggi, autori reali e inventati, riferimenti. Jorge da Burgos, il bibliotecario cieco del suo romanzo di esordio, ad esempio, non poteva essere altro che Jorge Luis Borges. E chi si nascondeva nel personaggio di Roberto de la Grive, ne L’Isola del giorno prima? Lo stesso Eco?

Si può continuare a lungo. Giochi, di parole calembour, enigmi indovinelli. Si scrivono saggi sui significati sommersi dei suoi libri. (ad esempio: Il mistero decifrato del Nome della Rosa) ma tutti restano abbagliati dalla soggezione, dalla distanza, dal voler tenere lontani da sé i lettori. Anche in questo caso una vera eccentricità. Gli scrittori muoiono dalla voglia di far entrare i lettori nelle loro stanze, nei loro luoghi, persino nella loro camera da letto, se è possibile. Il narcisismo di Eco, che esiste, è un narcisismo rovesciato, come il binocolo: anziché avvicinare e mostrare, allontana il soggetto lo sposta verso l’orizzonte. E lui si è sempre compiaciuto di questo. Quando sua moglie Renate lo rimprovera, dopo aver letto Il nome della rosa, dicendogli: «ma allora non è vero che tu in campagna non vedevi le scintille del fuoco acceso, e che non ti interessavano, perché nel romanzo le racconti benissimo». Lui fiero del suo modo di raccontare le risponde: «non ho mai fatto caso alle scintille del fuoco in campagna, ma sapevo come le avrebbe viste un uomo del medioevo». Ovvero la mia vita non c’entra, tutto quello che leggete e leggerete è quello che viene dai libri che ho studiato, perché, e questo si sa, i libri si parlano tra di loro, forse meglio delle persone.

Ma non è del tutto vero. Questa distanza,  questo distacco, questo sistema della diffidenza che Eco ha costruito come fosse un fortino per proteggersi per fortuna è pieno di falle, di luoghi che lascia aperti, alle volte come un qualcosa di voluto, altre senza neanche rendersene conto. I suoi libri, compreso questo ultimo, sono pieni di riferimenti personali, non soltanto quelli ai suoi romanzi preferiti, ma anche alla sua infanzia, alla sua giovinezza, alla sua vita in generale. D’altronde è sempre stato inconciliabile il fatto che uno dei suoi testi narrativi prediletti (al punto che ne ha curato personalmente una traduzione per Einaudi) sia la Sylvie di Gérard de Nerval. Racconto indecifrabile, sospeso, struggente, romantico, che puoi analizzare quanto vuoi, e con grande raziocinio, ma resta un testo inafferrabile, in cui puoi solo perderti.

Eco che si perde sembra un ossimoro, ma è il vero senso di tutto quello che ha scritto. I suoi romanzi sono frammenti di pergamena, di biblioteche bruciate e perdute, luoghi esoterici che «non hanno fatto dormire il suo autore», per citare l’aletta de Il Pendolo di Foucault, romantiche colombe color arancio che sulla linea del cambio di data il suo protagonista Roberto de la Grive guarda con rimpianto e melanconia. È la perduta memoria autobiografica, che Yambo, il protagonista della Principessa Loana, è costretto a ritrovare: ricorda la storia, sa chi è Giulio Cesare, ma non sa più il nome della moglie e dei figli. È il protagonista del Cimitero di Praga, che si presenta in questo modo: «Chi sono? Forse è più utile interrogarmi sulle mie passioni che sui fatti della mia vita».

Ma in Numero zero non ci sono filtri: non ci sono manoscritti ritrovati, storie riferite, racconti dentro i racconti. È la storia di un giornale che deve nascere, dove un gruppo di redattori prova a inventarsi un modo di fare giornalismo che faccia vendere copie. Ma sono tutti numeri zero, e sono tutte storie che nonostante sembrino molto attinenti alla realtà non raccontano niente, inseguono fatti che fatti non sono, spesso li inventano dando loro una coerenza, fanno una cronaca pensata per piacere ai lettori. Per cui l’espressione “fare notizia” significa esattamente questo: fare le notizie, crearle, fabbricarle. Ed è quello che da tempo perseguono con ostinazione i giornali. In questo romanzo c’è un personaggio paranoico che indaga su uno scoop, una storia che riguarda Benito Mussolini. Secondo lui il capo del fascismo non venne fucilato dai partigiano. L’uomo esposto a piazzale Loreto era un sosia. Mussolini rimase in vita nascosto in Argentina o forse in Vaticano.

Numero zero, è più breve, più semplice non ha percorsi intellettuali da trovare e riconoscere. È un Pendolo meno ossessivo e più lieve, un romanzo che è un ritorno a casa, l’uscita da un labirinto che Eco ha costruito enigma dopo enigma, citazione dopo citazione, in questi ultimi quarant’anni.

Ma se volete il punto di inizio, la chiave per capire la scrittura di Eco non è in un bestiario medievale del Beato di Liebana, ma in quel fascicolo Sonzogno: il punto più lontano, forse il più antico, il filo di Arianna che serve a uscire dal suo labirinto. In quell’antico racconto, in quel gioco di ricordi, Eco parla di un episodio minimo, marginale, di un ricordo di bambino.

«Era una mattina della primavera del 1943. La decisione era stata presa, si sfollava definitivamente. Era di prima mattina, e ci si avviava alla stazione, la famiglia al completo, in una carrozza di piazza. In quell’ampio spazio che a quell’ora era deserto mi parve, lontano, di scorgere il mio compagno delle elementari Rossini. Saltai in piedi gridando il suo nome, la carrozza traballò, il cavallo quasi si imbizzarriva. L’altro non si voltò, e in quell’istante ebbi la certezza che non fosse Rossini. Mio padre si irritò. Mi disse che ero il solito sconsiderato, non ci si comporta così, e non si grida come un pazzo “Verdini”. Io precisai che era Rossini, lui disse che Verdini o Bianchini, faceva lo stesso. Alcuni mesi dopo, quando ci fu il primo bombardamento di Alessandria, appresi che Rossini era morto sotto le macerie con sua madre».

Un ricordo privato, un’intermittenza. Lui la chiama un’epifania. Un racconto di spazi larghi, di miraggi strani e, come ho detto prima, di cani su una pista di atterraggio in Brasile, di collegamenti, di corto circuiti mentali. Eco continua e aggiunge: «Mi rimane nella memoria la visione di quello spazio urbano troppo largo, come una giacca passata di padre in figlio, in cui quella piccola figura si sta­gliava troppo distante dalla carrozza, e di un incontro dubbio con un amico che non avrei mai più rivisto. Alessandria è più vasta del Sahara, attraversata da Fate Morgane slavate».

In questo spazio narrativo immaginario Eco ha costruito impalcature solide perché le sue ossessioni, le sue paure e le sue inquetudini fossero al sicuro. Non ha dichiarato se stesso, non si è messo a nudo, non ha raccontato della propria vita. Ma è solo apparenza. Il suo cannocchiale rovesciato ha reso più nitide le cose e nella distanza ha raccontato di lui molto di più di quanto ci si aspettasse. Senza autobiografie, senza autoritratti, senza narcisismi autoriali, senza i vizi e i tic di buona parte della letteratura di questi decenni.

Tutto quello che c’è da sapere su Umberto Eco e sul suo mondo narrativo sta nei suoi libri. Basta cercare. Con Numero zero Eco regala un racconto che non ha bisogno di impalcature, torna a quello spazio vuoto, largo, a una Fata Morgana che è anche un capitolo di una storia collettiva. Dove i suoi temi ci sono tutti: la teoria del complotto, il fascismo eterno, le storture dei media, le derive dell’informazione, la sua Milano dove vive ormai da sessant’anni, e persino una piccola e semplice storia d’amore. Una concessione, per uno come lui, non da poco. Senza regalare niente alle mode letterarie, e alla letteratura di consumo.

Alcuni anni fa Eco ha scritto nelle sue lezioni americane, le Sei passeggiate nel bosco narrativo: «Talora speriamo di far coincidere la nostra storia personale con quella dell’universo». In tutti questi anni ha continuato a farlo, lasciando credere che la sua storia personale restava sempre fuori dai suoi libri, e che i suoi libri non fossero altro che universi coltissimi. Non ci ha mai creduto, alla fine. Perché in fondo la cosa più vera che ha scritto è nel Pendolo di Foucault, e sintetizza il senso più autentico di tutto il suo lavoro intellettuale: «la verità è brevissima. Il resto è solo commento».

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